ferdinando pappalardo
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Attualità

Festa della Liberazione, Pappalardo: «Nostalgici del regime sono fuori dalla storia»

Il presidente dell'Associazione partigiani Bari: «Col ritorno dei nazionalismi si rischia nuova guerra. La sfida europea: progredire o tornare indietro»

Bistrattata, contestata, quasi osteggiata: la festa della Liberazione ogni anno è oggetto di polemiche politiche e di contrasti sociali. Eppure il 25 aprile è la Data della storia italiana: quel giorno del 1945 finiva l'occupazione nazifascista della Penisola e iniziava una fase nuova, di libertà e democrazia. Una verità storica che resiste al negazionismo e al revisionismo, esattamente come i partigiani resistettero all'oppressione del regime di Mussolini, dando all'Italia gli strumenti per ripartire dopo l'atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Il 75mo anniversario della Liberazione sarà celebrato in quarantena, ma non per questo in tono minore, anzi. La crisi attuale sta chiamando sia l'Italia sia l'Europa a trovare un'unità che – nei fatti – non si è ancora realizzata, riportando l'attenzione sui valori dell'uguaglianza sociale e della solidarietà che animarono la Resistenza e la lotta partigiana. Ne abbiamo parlato con il prof. Ferdinando Pappalardo, presidente del comitato Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani) di Bari.

Professore, perché è importante festeggiare il 25 aprile?

È la data di nascita della democrazia repubblicana, la radice del referendum sulla repubblica e della Costituzione. Il 25 aprile crolla un regime, finisce una guerra, ci liberiamo dall'occupazione straniera: senza quella voglia di combattere e di opporsi, oggi non avremmo uno Stato democratico, che garantisce diritti. L'ordinamento successivo alla Liberazione è molto diverso dallo Stato liberale pre-fascista; basti pensare al voto per le donne. Festeggiare il 25 aprile è un richiamo alla lezione storica; quel giorno cambiò la storia d'Italia. Un modo per onorare chi ci ha liberati, chi è morto ma anche chi è sopravvissuto. La Resistenza non partì con l'armistizio dell'8 settembre '43, ma ha contraddistinto tutto il ventennio fascista.

Anche quest'anno ci sono state polemiche e tentativi "revisionisti" sul 25 aprile. È preoccupante che non tutti si riconoscano a pieno in questa festa?

Le ragioni di chi non si riconosce nel 25 aprile sono stravaganti. C'è chi sostiene che si tratti di una festa anacronistica; mi sembra un'obiezione speciosa. In ogni paese del mondo ci sono ricorrenze legate a fatti storici: la Francia celebra la presa della Bastiglia, un evento del 1789 simbolo della fine dell'antico regime e dell'inizio di una fase nuova. C'è chi dice si tratti di una festa divisiva, ma lo è solo perché segna una cesura storica. Difficile dare alle feste il significato di una celebrazione unanime, c'è sempre qualcuno che non è d'accordo; il ché non toglie valore a un momento di progresso. Non vedo come si giustifichi il carattere divisivo; chi ha nostalgia del regime è fuori dalla storia e dovrebbe essere fuori dalla democrazia.

L'anno scorso si provò a ridurre il 25 aprile a un "derby" fra comunisti e fascisti. Eppure alla Resistenza e alla costituzione repubblicana parteciparono tante forze antifasciste, e non tutte di sinistra…

Non credo che ci sia ignoranza, ma malafede. Nella Resistenza c'erano anche i monarchici al fianco di socialisti, comunisti, cattolici, azionisti e liberali. Il capo del comitato di liberazione era Cadorna, un militare, un monarchico. Ridurre il tutto a un "derby" è una banalizzazione e una distorsione della realtà storica. Tra l'altro, la stessa Lega delle origini era un movimento antifascista; Bossi non fece mai mistero di esserlo. Nel '94 la Lega Nord rifiutò di fare liste con Alleanza Nazionale, partito ritenuto post-fascista. Al Sud l'accordo fu fra Forza Italia e Alleanza Nazionale, mentre al Nord fra Lega e Forza Italia. Evidentemente è avvenuta una mutazione antropologica negli ultimi anni.

Bari fu una delle protagoniste della Resistenza, con la difesa del porto e il congresso delle forze antifasciste nel teatro Piccinni. Crede che in città ci sia sufficiente conoscenza di quegli eventi?

In verità, no. Questi fatti li ricordano le generazioni anziane, i giovani non credo ne abbiano grande consapevolezza. Mi piacerebbe sapere quanta gente di passaggio in piazza Umberto sa che lì c'è un monumento dedicato alle vittime della strage fascista di via Niccolò Dell'Arca. I fatti si dimenticano se non si provvede a tenerli vivi; per anni di certi eventi non si è più parlato.

Papa Francesco a Bari ha detto di sentire nei discorsi dei leader sovranisti echi degli anni '30. Considerando la situazione ungherese, teme che gli aspetti più deteriori del nazionalismo possano tornare a esercitare un certo "fascino di massa"?

Lo temo. È un effetto automatico delle grandi crisi: quando un ordine mondiale smette di funzionare, la risposta spontanea è serrare i confini e difendersi dalle minacce esterne. Una tattica vecchia: ogni movimento reazionario si è inventato un nemico esterno per rafforzarsi all'interno. È prerogativa dei totalitarismi, non solo nazifascisti, ma anche di quello stalinista. Dobbiamo ricordare che il nazionalismo porta alla guerra: se l'Europa, campo di battaglia mondiale per millenni, è in pace da 75 anni è perché ha messo la sordina ai nazionalismi, alle rivendicazioni territoriali e alla volontà di potenza. Se i nazionalismi europei dovessero tornare ad affermarsi con forza non è da escludere l'ipotesi di un nuovo conflitto.

Dopo la Seconda guerra mondiale si iniziò a considerare l'Europa non più solo come unità geografica, ma anche economica, politica e sociale. Crede che sarà il Covid-19 a spezzare un sogno che, in verità, già vacilla da qualche anno?

Il processo di costruzione dell'unità europea ha accumulato ritardi e incertezze. Questa crisi aggrava le difficoltà. Abbiamo soltanto un'unità monetaria, a cui non corrispondono politiche estere e fiscali comuni. Alcuni paesi dell'Unione fanno i furbi con il dumping fiscale, danneggiando i propri vicini offrendo condizioni favorevoli di tassazione per le imprese. Il dislivello emerge con forza durante un'emergenza del genere. L'Europa riuscirà a ricavare una lezione o si disgregherà? Difficile fare previsioni. Certo è che dal crollo dell'Unione Europea non ricaveremmo alcun vantaggio. Non è auspicabile il ritorno agli stati-nazione, ma le discussioni di questi giorni sugli interventi economici lasciano capire che le nazioni con bilanci più solidi non accettano di dare una mano a chi è in difficoltà. Anche piccoli ma irremovibili stati come Austria, Olanda e Finlandia non ricaverebbero grandi vantaggi dalla frammentazione.

L'attualità politica vorrebbe farci intendere che per le ideologie non c'è più spazio. È davvero così?

Se per ideologia intendiamo visione del mondo esclusiva, che tende a proporsi come unica giusta e che ha prodotto i totalitarismi, è bene che sia morta. Ce ne sono tante altre, però, non meno pericolose. Il pensiero unico, il neoliberismo e la fiducia nella capacità del mercato di produrre sviluppo illimitato: anche queste sono ideologie. Se, invece, si intende un modo di vedere la realtà, allora l'ideologia non sparirà mai.

Difficile cogliere il senso della storia nel suo farsi, ma secondo lei cosa ci lascerà come italiani in eredità la crisi che stiamo vivendo in questi giorni?

Non c'è una risposta certa. Possiamo uscirne migliori ma anche peggiori; difficile pensare che si torni al punto di partenza. Questa esperienza cambierà le cose, ma i segnali sono contrastanti. Alle manifestazioni di solidarietà si oppongono fenomeni di sciacallaggio e speculazione. Quando dovremo fare i conti con i costi della crisi bisognerà vedere se si troveranno soluzioni per progredire e non regredire. Questa, però, non sarà una parentesi: si dovrà capire se avremo la forza per accelerare il processo di unificazione oppure se torneremo a essere un arcipelago di stati-nazione.
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