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Calcio

SSC Bari, dalla “partita della vita” alla resa incondizionata

Stavolta non basta neanche la reazione dopo l’inizio shock. La retrocessione a un passo

"Nomadi che cercano gli angoli della tranquillità, nelle nebbie del nord e nei tumulti delle civiltà, tra i chiariscuri e la monotonia, dei giorni che passano". Ci perdonerà, da lassù, il maestro Franco Battiato se da qualche settimana a questa parte utilizziamo le sue liriche senza tempo per commentare vicende tanto prosaiche quanto la lenta agonia di una "squadra" di calcio. Ci sembra, però, un gesto carino dedicare i vertici della poesia immortale ai tifosi della SSC Bari, alla ricerca di qualche sollievo davanti alla resa incondizionata dei propri colori al devastante scenario di una retrocessione che, mai come oggi, appare così vicina e probabile.

Il Bari esce dal San Vito-Marulla di Cosenza con lo sconcertante passivo di 4-1, e con in tasca il terzultimo posto in classifica che - a oggi - varrebbe il biglietto di ritorno per l'inferno della serie C, senza neanche passare dal via dei playout. In settimana era stata presentata come la "partita della vita", quella da vincere a tutti i costi; una pia illusione, una vana speranza, perché i fatti (quelli che non sbagliano mai) continuano a raccontare altro. E la trama è sempre la stessa, quindi con l'aggravante della recidiva. Anche la sfida in casa del Cosenza è macchiata inesorabilmente da un avvio di gara shock, senza nessun senso: passano 17' di gioco e la squadra di Viali è già avanti 2-0, con le reti di Mazzocchi e Tutino (assistito da Marras, ex assetato di rivincita) che mettono a nudo tutte le gigantesche fragilità caratteriali di un collettivo che, banalmente, non c'è.

Certo, per avere la meglio in un delicatissimo scontro-salvezza era necessario tirare fuori la prestazione da partita della vita, ma il Bari ha più volte dimostrato di non essere capace di raccogliersi nel momento della difficoltà, di attingere al serbatoio dell'orgoglio per compensare i limiti (tecnici e spirituali) palesati in trentacinque, lunghissime, giornate di agonia. La missione diventa sì impossibile se per oltre mezz'ora si lascia agli avversari la possibilità di fare il bello e il cattivo tempo; già da un pezzo la strategia di sperare che gli altri abbaino ma non mordano si è dimostrata fallimentare. Sarebbe un inutile esercizio di retorica tornare a elencare le numerosissime occasioni in cui il Bari ha regalato goal e interi momenti di partita all'avversario di turno; basta scorrere cronache e commenti delle settimane precedenti per farsi un'idea.

E altrettanto inutile si è dimostrata la speranza che, con l'acqua alla gola e le lancette che si muovono veloci, il gruppo potesse compattarsi in vista di un obiettivo che si è venuto - purtroppo - a creare strada facendo; con il senno del poi, rimpiangiamo di aver lamentato, in tempi meno sospetti di questi, l'anonimato di una posizione a metà classifica. Il buon Mattia Maita ha tutto il diritto di difendere il gruppo, di rivendicarne la solidità, di sbattere i pungi sul tavolo e fare la voce grossa. Per carità, ognuno può distorcere la realtà come vuole, ma non può impedire agli osservatori di notare scene imbarazzanti come quella di Sibilli e Nasti che si mandano platealmente a quel paese in campo, né si può far finta di non vedere che nessuno fa una corsa in più per il compagno e si sacrifica per il bene collettivo. Le lacrime di capitan Di Cesare, adesso, assumono il loro vero significato: neanche lui, dopo quell'infausto 11 giugno 2023, ha potuto lottare contro i mulini a vento. Il Bari sul campo non ha mantenuto quello che aveva promesso "sulla carta" (parole, musica e boomerang di Ciro Polito); si può discutere se effettivamente si tratti di una rosa da terzultimo posto, ma sarebbe un altro esercizio di vana retorica.

No, il Bari semplicemente non è squadra. Non è (ancora) il tempo di puntare il dito contro questo o contro quell'altro; d'altronde, gli errori sesquipedali commessi da Polito in fase di costruzione della rosa sono sotto gli occhi di tutti, così come l'infondatezza di una "aggressione" del mercato annunciata e mai effettivamente portata a termine. Tutti, dalla proprietà all'ultima delle riserve, sono inchiodati alle loro tragiche responsabilità, e nessuno si può salvare. L'aver "mangiato" tre allenatori, per poi affidare la missione impossibile all'autogestione di uno spogliatoio in frantumi e a un team di tecnici come Giampaolo, Di Bari e Di Leo completamente inerme, è stata solo l'ultima polpetta avvelenata di una serie interminabile di portate sgradevoli.

Stavolta, caro Bari, neanche l'amor proprio è sufficiente. Abbiamo anche smesso di chiederci come mai le cose "migliori" i biancorossi le abbiano costantemente fatte vedere in risposta agli avversari, per compensare l'iniziale inazione e i suoi nefasti prodotti; uno dei tanti capitoli da consegnare al libro dei misteri di una stagione che si sta concludendo con una retrocessione, sul campo, meritata. Il goal di Nasti, arrivato a fine primo tempo dopo una decina di minuti di forcing disperato, aveva alimentato un'altra flebile speranza, l'ennesima; i pali stampati da Sibilli e Nasti, il gioiello di Calò, la folle espulsione di Bellomo e il punto esclamativo di Forte, però, hanno tolto il velo di Maya, per consentire agli attoniti spettatori baresi di osservare la realtà in tutta la sua tragica assenza di senso.

Un suicidio che si sta consumando nell'assordante silenzio di una società latitante, che ha perso la bussola e che ha trasmesso a tutti i suoi dipendenti la propria, medesima, confusione. I 2mila tifosi arrivati al Marulla, e tutti quelli collegati da casa a tv e radio, avrebbero forse meritato - dopo la partita - di vedere il presidente Luigi De Laurentiis cospargersi il capo di cenere in diretta e promettere di fare tutto il possibile per almeno provare a salvare la baracca da un destino che appare ormai segnato; a cominciare da mercoledì, quando al San Nicola arriverà il Parma per una sfida che - classifica alla mano - sembra in partenza senza storia.

Non è stato possibile, perché la SSC Bari ha preferito trincerarsi nel silenzio stampa, certamente per proteggere il povero Giampaolo, ma forse anche per tirare il pallone in tribuna e rimandare l'appuntamento con la verità. Non che sarebbe servito a molto, per amor del cielo, ma un intervento del presidente avrebbe quantomeno aggiunto un nuovo argomento di discussione nelle piazze fisiche e virtuali di una città che sta assistendo, inerme, incredula, al più grave disastro della sua storia sportiva recente, già di per sé non avara di onte, drammi e delusioni.
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