terapia intensiva covid policlinico di bari
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Cronaca

Uccisa dal Covid e derubata al Policlinico di Bari, la storia di Sabina

La donna, 42enne affetta da sindrome di down, aveva con sé uno zainetto al ricovero che non è stato restituito

Un colpo vile, messo a segno in un ospedale, nei confronti di una persona contagiata da Covid, poi deceduta a seguito dell'aggravarsi delle sue condizioni, e ancora più fragile, perchè affetta dalla sindrome di Down.

È l'incredibile vicenda subita dalla famiglia Minerva, originaria di Palo del Colle, ma strettamente legata anche a Bitonto, rimasta vittima della cupidigia senza scrupoli di una mano ignota che si è appropriata di alcuni effetti personali di chi in quel momento proprio non poteva difenderli. A chiedere giustizia, per la sorte capitata alla sorella Sabina, è Rocco Minerva, 41 anni, un anno più giovane della sorella, che ha deciso di sporgere denuncia verso ignoti presso i carabinieri, affidandosi all'assistenza legale dell'avvocato Massimo Guarini.

Nei mesi scorsi la 42enne era stata trasportata al Pronto Soccorso del Policlinico di Bari per una grave infezione da Covid-19. La donna è stata subito trasferita nel reparto di Rianimazione del nosocomio barese, ma dopo due settimane in cui ha provato in ogni modo a restare aggrappata alla vita, il suo cuore ha smesso di battere. È qui che inizia un altro assurdo calvario per i familiari della vittima: al suo ingresso in ospedale Sabina aveva infatti uno zainetto bianco in nylon in cui aveva riposto alcuni suoi effetti personali, di poco valore, ma a cui teneva molto. Tanto che, nonostante l'invito delle sorelle a non portare con sé quegli oggetti per evitare di perderli, non ne aveva voluto sapere e aveva preferito averli assieme durante il ricovero. All'interno c'erano una protesi dentale appena realizzata, occhiali da vista, un bracciale in caucciù, una rubrica telefonica, un pettine e uno specchio da trucco, un borsellino contenente una decina di euro in monete, documenti personali. E poi una collanina in oro, dono della madre per la cresima, a cui era legatissima e alla quale, di riflesso, soprattutto adesso che Sabina non c'è più, si erano legati anche i suoi fratelli e le sue sorelle. Inutili le continue telefonate al coordinatore del reparto di rianimazione che pure aveva promesso di interessarsi alla vicenda ed attivarsi per restituire lo zaino. Quegli effetti personali non sono stati più ritrovati e adesso la famiglia chiede giustizia.

«Non certo per il valore venale degli oggetti – ha dichiarato l'avvocato della famiglia, Massimo Guarini – quanto per l'enorme valore affettivo che avevano per la povera Sabina e adesso anche per tutti i suoi affetti più cari: sono gli unici e ultimi ricordi di una persona a cui erano molto legati e a cui volevano tutti molto bene. È un vero peccato dover prendere coscienza di come ci si possa approfittare di una persona completamente indifesa persino in un luogo in cui chi ha bisogno si affida con la speranza di ricevere soccorso e non certo ulteriore dolore».
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