Omicidio Labriola, condanna definitiva a 30 anni

La famiglia: «La giustizia ha funzionato e ci ha permesso di non coltivare rancore»

sabato 21 ottobre 2017 15.30
A cura di Elga Montani
Una condanna definitiva a 30 anni, il massimo della pena. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione nel processo nei confronti di Vincenzo Poliseno, per l'omicidio della dottoressa Paola Labriola. L'uomo era stato già condannato sia in primo grado che in appello, sulla base di perizie che stabilivano la sua capacità di intendere e di volere al momento del folle gesto, avvenuto il 4 settembre 2013, nel centro di salute mentale di via Tenente Casale, quartiere Libertà, dove la dottoressa era in servizio. Una condanna giunta in tempi adeguati, e che forse potrà dare un po' di pace alla memoria di Paola Labriola e alla sua famiglia.

«Ritengo giusto che una persona che fa una cosa del genere debba pagare – ha detto ai nostri microfoni il marito della dottoressa Paola Labriola, Vito Calabrese – ma per questo esiste il diritto. Per fortuna non sono mai stato accecato da sentimenti di vendetta nonostante questa persona abbia compiuto una strage nei confronti di una persona, e abbia distrutto la mia vita e quella dei miei figli».

«Credo anche – prosegue – che ogni essere umano abbia diritto anche ad una forma di riabilitazione. Essendo poi io un operatore sanitario conosco anche il lavoro che fanno molti colleghi nelle carceri, che non devono essere solo luoghi in cui scontare una pena, ma anche luoghi in cui dare la possibilità a chiunque di potersi in qualche modo redimere. Posso dire che mi ha di sicuro aiutato il fatto che questo mio percorso non sia stato solitario, anzi è stato un percorso collettivo, dato che molte persone ci sono state vicine. Insieme abbiamo cercato di elaborare il lutto per la morte di Paola, che d'altronde era una persona pubblica ed è morta sul lavoro, e il percorso fatto ci ha fatto comprendere, ad un certo punto, che mai avremmo potuto andare in pari con quanto ci era stato tolto».

«La giustizia è comunque una forma di risarcimento – sottolinea – ed è giusto che sia chi di dovere a pensare a questa persona. Personalmente provo fastidio quando le persone arrivano in determinate situazioni a livelli se così posso dire arcaici ed animaleschi, per mia fortuna non è nel mio modo di essere. Il diritto stabilisce che c'è un prezzo da pagare per stare insieme agli altri all'interno della società, ed ognuno deve prendersi le proprie responsabilità. Questo signore ha commesso un gesto aberrante nei confronti di una persona mite, e non so cosa possa aver scatenato questa furia distruttiva, posso solo immaginare la rabbia che poteva avere dentro di sé. Purtroppo mia moglie è stata investita da questa rabbia, causata probabilmente dall'aver sofferto tantissimo nella vita. Ribadisco però che i sentimenti di rancore o di vendetta forse possono aiutare subito, a caldo, ma poi aggiungono solo dolore al dolore».

«Mi ha fatto piacere scoprire – continua il marito della dottoressa – in seguito a quanto accaduto, quante persone volessero bene a Paola. In sincerità posso dire che non cambia la situazione una condanna, non mi riempie di gioia questa cosa, mi fa però piacere che nel nostro caso la giustizia abbia funzionato. Il fatto poi che abbia fatto il suo corso anche in breve tempo (sono passati solo 4 anni dall'omicidio ndr) sicuramente ha facilitato la cosa, non so come avrei potuto reagire se questa persona fosse stata in libertà. Non so di sicuro come avrei reagito se non fosse stato condannato. Ottenere in così breve tempo una condanna, anche al massimo della pena, di sicuro ha aiutato e mi ha permesso di non coltivare il rancore».