«Amò, ti voglio strangolare». Così si vantavano di aver ucciso Vasienti
Dalle intercettazioni emergono alcuni dialoghi avuti da due degli arrestati, Remini e Sardella, con alcune amiche dopo l'omicidio
venerdì 19 dicembre 2025
23.02
«Amò, vieni qua che ti voglio strangolare, alla tipo Nicola, alla tipo Nicola». È una delle frasi pronunciate da Donato Sardella e Gaetano Remini, due dei quattro presunti assassini di Nicola Vasienti, finiti ieri mattina in carcere su ordinanza di custodia cautelare. Il 16 dicembre 2016, un anno dopo la morte di Vasienti, nella Fiat Panda di Sardella, in cui erano presenti anche Remini e due ragazze, è stata «captata una vera e propria confessione da parte di Sardella e Remini, i quali si sono autoaccusati in maniera circostanziata dell'omicidio». In particolare Sardella, conversando all'interno della propria auto, «ha reso dichiarazioni specifiche sui momenti precedenti alla morte di Vasienti, confessando la propria partecipazione all'episodio». Dopo che una delle ragazze racconta di essere andata all'obitorio dove si trovava la salma dell'uomo, Remini cerca di abbracciarla: «Ti devo uccidere... dai abbracciami...», ma lei lo respinge: «Non ti voglio abbracciare più... basta... troppa confidenza stasera... basta». Remini, a quel punto, ribatte: «Mhò... pure il resto... dopo che mi hai ucciso... mi hai strangolato...». La ragazza, però, risponde stizzita: «Io? Quello è il mestiere tuo». Il racconto lo prosegue Sardella: «... zitta! Nicola faceva: "Gaetano non mi uccidere!"... e lui... "bastardo!"... devi morire... Peccato... fratello non stare vergognato». Frasi «spontanee e genuine» in un «momento in cui nulla si sapeva o si sospettava sulle modalità in cui era realmente avvenuta la morte di Vasienti», è scritto nella misura cautelare. Non solo: il collaboratore di giustizia Donato Telegrafo, soprannominato «Dino», ha riferito di essere venuto a conoscenza della morte di Vasienti mentre era in carcere, ad Avellino. «L'ho saputo da Faccilongo (Giovanni, fratello del boss di San Pio, Saverio) - ha raccontato Telegrafo -. Mi disse che era stato impiccato per il fatto che... come dicono, eh! Che "Pondin" si teneva la moglie, poi disse che "Pondin" uscì la calunnia che Vasienti voleva collaborare con la giustizia». Per Telegrafo, dunque, l'omicidio Vasienti scaturì «dal tradimento della compagna di Vasienti con Remini, oltre che nella decisione di Vasienti di collaborare con la giustizia». Di quel delitto, tre anni dopo, nel 2019, sempre Telegrafo ha parlato anche con Marco Latrofa: «Attenzione, ancora Dino ti fa fare la fine di Vasienti». Arriviamo al 2020, quando Telegrafo dice «di aver parlato con Antonio Patruno e Michele Lorusso, i quali volevano transitare sotto Alessandro Ruta, svincolandosi da Domenico Remini, a causa del fatto che lo stesso Remini si appropriava dei profitti delle estorsioni. Nell'occasione i due avevano posto in relazione i "maltrattamenti" subiti dagli stessi ad opera di Domenico Remini con quelli posti in essere da quest'ultimo con Vasienti, aggiungendo che temevano di far la fine di Vasienti, il quale, stando al racconto dei due, era stato "impiccato" da Gaetano Remini». Ad impreziosire il racconto, anche le dichiarazioni di Arcangelo Telegrafo, il quale ha riferito di aver appreso in carcere delle modalità della morte di Vasienti, riferendo che l'uomo era stato impiccato: «Impiccato. Prima l'hanno soffocato e poi l'hanno appeso per depistare le indagini. L'attività investigativa, nel corso degli anni, di chiarire che «Vasienti, contrariamente a quanto volevano lasciar credere, è stato assassinato per soffocamento e poi appeso per simulare il suicidio; come si ricorderà - è scritto nelle 324 pagine dell'ordinanza - la scena del delitto è sovrapponibile a quella raccontata dal Telegrafo e non era nota agli ambienti esterni, in quanto emersa solo nel corso del sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica». E poi ci sono le confessioni dello stesso Domenico Remini, raccolte da Antonio Musciacchio: «Sì, praticamente Remini era andato a mettere al corrente Vito Raggi per dirgli: "L'abbiamo ucciso perché era un infame».